Un’analisi su dieci tipi di politiche di riduzione delle emissioni di carbonio mostra che parte dei costi ad esse associate ricadono sulle imprese più piccole e sui consumatori meno abbienti. Ma evidenzia anche che, se queste politiche sono adeguatamente progettate e utilizzate sinergicamente, possono invece costituire le fondamenta di una “ripresa verde” che promuova equità e competitività.
Il ventaglio di politiche attualmente messe in atto per decarbonizzare le economie include numerosi strumenti, tra cui le tasse sul carbonio, il mercato dei permessi, le feed in tariffs o le quote di energia rinnovabile.
Secondo un nuovo studio, alcune di queste politiche potrebbero essere dannose per le famiglie meno abbienti e per le piccole imprese. Questo implica che i costi associati alla transizione verde potrebbero ricadere in gran parte su coloro che sono meno in grado di far fronte ad un aumento dei prezzi dell’energia nel breve periodo.
Per evitare che questo succeda, è necessario progettare e calibrare il ventaglio di politiche a supporto della decarbonizzazione a vantaggio delle piccole e medie imprese, ognuna delle quali opera in condizioni locali diverse, e delle famiglie a basso reddito. Quando questo avviene, lo studio mostra che le politiche climatiche permettono di perseguire una riduzione delle emissioni ma anche di fornire nuove opportunità economiche.
I risultati dello studio, condotto nel contesto del progetto europeo INNOPATHS dalla Dott.ssa Cristina Peñasco dell’Università di Cambridge, dalla Prof.ssa Laura Diaz Anadon, Direttrice del Cambridge’s Centre for Environment, Energy and Natural Resource Governance (C-EENRG) , e dalla Prof.ssa Elena Verdolini di RFF-CMCC European institute on Economics and the Environments (EIEE), Fondazione CMCC – Centro Euro-Mediterraneo sui Cambiamenti Climatici e Università degli Studi di Brescia, sono pubblicati oggi sulla rivista scientifica Nature Climate Change.
“Mitigare i cambiamenti climatici non è (e non può essere) l’unico obiettivo delle politiche di decarbonizzazione”, ha affermato Cristina Peñasco. “Se le politiche a basse emissioni di carbonio non sono eque, efficienti e non stimolano la competitività, sarà difficile ottenere il sostegno pubblico necessario per la loro messa in atto. Questo potrebbe portare a ulteriori ritardi nel processo di riduzione delle emissioni di gas a effetto serra, con conseguenze disastrose per il pianeta, le nostre economie e le generazioni future”.
Le tre autrici della ricerca hanno utilizzato una metodologia di meta-analisi, applicata ad un vasta collezione di articoli pubblicati in riviste scientifiche, per confrontare l’influenza di dieci strumenti di politica climatica su importanti variabili quali i costi e l’efficienza delle tecnologie verdi, la competitività delle imprese e l’equità. A tal fine, hanno analizzato circa 7.000 studi, individuando oltre 700 singoli risultati. Per ciascuno di essi, le autrici hanno codificato se l’impatto sulle variabili di interesse fosse positivo o negativo. Queste informazioni sono state rese disponibili al pubblico attraverso uno strumento online interattivo grazie al quale gli utenti possono esplorare in maniera autonoma l’evidenza scientifica e paragonare l’efficacia e l’efficienza degli interventi in diverse aree geografiche e diversi settori economici.
I dieci “strumenti” politici discussi nello studio includono forme di investimento (ad esempio finanziamenti mirati alla ricerca e allo sviluppo), incentivi finanziari (sussidi, tasse e gli appalti pubblici verdi – Green Public Procurement), interventi di mercato (permessi di emissione e certificati negoziabili per energia pulita o risparmiata) e standard di efficienza (come quelli per gli edifici).
Tra i numerosi risultati della ricerca emerge che per la maggior parte degli strumenti analizzati, le “conseguenze distributive”(ovvero l’equità della distribuzione dei costi e benefici associati all’intervento di politica climatica) sono molto più spesso negative che positive o nulle. Questo è particolarmente vero per le piccole imprese e i consumatori meno abbienti.
Ad esempio, le tariffe feed-in pagano i produttori di energia elettrica rinnovabile al di sopra delle tariffe di mercato. Ma i costi associati a questo intervento sono spesso “passati” ai consumatori in quanto risultano in un aumento generalizzato dei prezzi dell’energia. Sebbene questo abbia implicazioni per tutti i consumatori, pesa in maniera sproporzionata sui meno abbienti, che spendono una porzione maggiore del proprio reddito in energia. Impatti distributivi negativi emergono anche per strumenti quali i certificati verdi, ossia titoli negoziabili che sono forniti a produttori di energia rinnovabile, e per le tasse sull’energia.
“Le piccole imprese e le famiglie di medie dimensioni hanno meno capacità di assorbire gli aumenti dei costi energetici”, afferma Laura Diaz Anadoni. “Alcune delle politiche di investimento e normative hanno reso più difficile per le piccole e medie imprese cogliere nuove opportunità o adattarsi ai cambiamenti. Se le politiche non sono ben progettate e le famiglie e le imprese vulnerabili ne fanno esperienza negativa, potrebbe aumentare la resistenza pubblica al cambiamento, un grosso ostacolo al raggiungimento della neutralità carbonica”, ha continuato Anadon.
Tuttavia, la vasta mole di dati raccolti dalle studiose rivela che queste politiche possono essere progettate in modo da ridurre i possibili impatti negativi su imprese e consumatori. Quando questo avviene, le politiche climatiche permettono di limitare le emissioni di gas a effetto serra senza incorrere in danni collaterali su competitività ed equità, ma anzi promuovendo l’innovazione e aprendo la strada a una transizione più equa verso la neutralità carbonica.
A tal fine le autrici discutono diversi esempi. Le tariffe feed-in devono essere modulate in modo che siano “prevedibili ma regolabili” per portare benefici a progetti di energia verde più piccoli e più dispersi, per migliorare la competitività del mercato e contribuire a mitigare l’opposizione dei residenti di un luogo allo sviluppo di un’opera nella propria area: il cosiddetto fenomeno del NIMBY (Not In My Backyard).
I proventi delle tasse ambientali dovrebbero essere utilizzati per benefici sociali o crediti d’imposta, come la riduzione dell’imposta sui redditi d’impresa per le piccole imprese e la riduzione delle imposte sul reddito, fornendo quello che le ricercatrici chiamano un “doppio dividendo”: stimolare le economie riducendo le emissioni.
I finanziamenti governativi per la ricerca e lo sviluppo dovrebbero essere mirati anche alle piccole imprese, e possono aiutare ad attrarre altri flussi di finanziamento, stimolando sia l’eco innovazione che la competitività. Se combinati con i crediti d’imposta per la ricerca e lo sviluppo, questi sosterrebbero prevalentemente l’innovazione nelle startup, piuttosto che nelle grandi società.
Gli appalti pubblici verdi possono essere disegnati in modo da promuovere le imprese virtuose, che si impegnano in innovazione, o per stimolare l’accesso al mercato per le piccole imprese in aree “economicamente stressate”. Ciò potrebbe aiutare a riempire il divario tra le regioni più ricche e quelle più povere nel contesto di una green recovery.
“Non esiste una soluzione univoca, valida per tutti i settori e in tutti i contesti geografici”, commenta Elena Verdolini. “Al contrario, la letteratura mostra che lo stesso strumento può dare vita a impatti negativi in alcuni contesti, e positivi in altri. Spesso, la differenza sta non nella scelta dello strumento, ma nella sua calibrazione, che deve tenere conto della realtà locale (e non solo nazionale), e del contesto socio-economico. Solo prestando molta attenzione al design di ogni singolo strumento sarà possibile raggiungere l’obiettivo europeo della neutralità carbonica (Net Zero) e di una ripresa verde, assicurandosi che “nessuno venga lasciato indietro””.
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