Il termine “indie” è tornato prepotentemente di moda: cosa significa, per te, questa definizione e quanto ti appartiene?
La musica indie dovrebbe rappresentare un’attitudine minimale e viscerale che mette a nudo la canzone, lasciandola quasi incompiuta, in modo che l’ascoltatore possa apprezzarne la fragilità. La stesura del mio album è stata sicuramente influenzata da questa visione, abbiamo lavorato per sottrazione, dosando con cura le sonorità e cercando di mantenere l’immediatezza dei miei provini iniziali. Come tutte le etichette, anche quella “indie” si è prestata a tutta una serie di manipolazioni. Il paradosso è che la scena italiana che rientra sotto questa definizione è ormai, di fatto, mainstream. Personalmente ritengo che questo inquadramento non sia così importante, preferisco distinguere fra quello che mi piace e non mi piace ascoltare, a prescindere dalla sua collocazione stilistica.
Il tuo album è uscito durante un periodo complicato per l’intero settore dello spettacolo, che prospettive vedi per il mondo della musica dopo l’emergenza Covid?
Il settore dello spettacolo è stato duramente colpito dalle misure di sicurezza che hanno arginato l’epidemia. A Milano alcuni locali storici hanno chiuso e, al momento, non sappiamo se gli altri riusciranno a riprendersi dopo una simile batosta. Spesso ci dimentichiamo di quanti professionisti sono coinvolti in un evento: tecnici, promoter, turnisti. Sono proprio queste le figure più colpite e, senza di loro, lo spettacolo diventa, di fatto, impossibile. C’è molta voglia di ricominciare, il pubblico, dopo la lunga astinenza, ha sicuramente fame di eventi. Ma ci vorrà del tempo per ricucire uno strappo così profondo. La speranza è che nei prossimi mesi si vada verso una graduale riapertura e che i professionisti, prima ancora degli artisti, possano tornare sul palco.
Il mercato musicale è dominato dai giovani rapper, alcuni li definiscono “i nuovi cantautori”, tu cosa ne pensi di questa scena?
Amo molto la musica rap, specialmente quella americana degli anni novanta. La scena italiana, a parte illustri eccezioni, mi sembra ancora acerba e orientata quasi esclusivamente verso gli adolescenti. Questo non toglie che il rap sia un veicolo straordinario per la diffusione di testi e messaggi. Spero che questa esplosione porti anche a una maturazione dei contenuti, al superamento degli stereotipi del genere, cosa che all’estero è avvenuta da anni ed è tuttora in corso grazie ad artisti strepitosi come Kendick Lamar. Da appassionato, mi piacerebbe che il rap italiano diventasse un po’ più adulto.
Le tue canzoni sono prevalentemente ambientate nella provincia milanese, come mai questa scelta stilistica?
Si tratta dell’ambiente nel quale sono cresciuto. Mi piacciono le storie di provincia, specialmente quando nella quotidianità irrompe qualcosa di imprevisto. Nel mio album, che, non a caso, si intitola “I luoghi comuni”, i personaggi si muovono su questo sfondo suburbano dentro al quale cercano disperatamente un po’ di poesia. Ci sono due brani in particolare nei quali questa ambientazione è determinante fin dal titolo: il primo è “L’estate in Brianza”, una ballata agrodolce che parla di zanzare e solitudine; il secondo è “Tangenziale est”, un vero e proprio “thriller” di provincia che chiude il disco in maniera inconsueta, lasciando da parte il cantato per affidarsi al discorso diretto del protagonista.
Pensi che la canzone d’autore debba restare fedele alla sua tradizione oppure che debba adattarsi alle nuove sonorità?
Penso che l’evoluzione della canzone d’autore italiana sia già in corso da parecchio tempo grazie ad artisti come La Crus, Paolo Benvegnù, Marco Parente e tanti altri. Il problema, secondo me, è che il grande pubblico, specialmente quello più giovane, non solo è rimasto fuori da questo percorso ma non possiede nemmeno una conoscenza di base dei grandi cantautori del passato. Questo vuoto ha sicuramente portato a un rinnovamento ma, probabilmente, anche a un impoverimento del gusto generale. Quanto alla “tradizione”, a volte basta guardarsi indietro per trovare delle vere e proprie rivoluzioni che farebbero impallidire quelle attuali: penso alla discografia “bianca” di Battisti, al Dalla di “Anidride solforosa” o al De Andrè di “Crêuza de mä”.
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