Di Gino Morabito
Correva l’anno 1956 quando venne installato un grande ripetitore sul Monte Faito in Campania, che consentì al segnale di arrivare in Sicilia. Dappoi la televisione l’ha adorata, inseguita, trasformata, dominata. Recordman indiscusso di Sanremo, ha incontrato personaggi diventati amici: Gassman, Sordi, Fabrizi, Mondaini e Vianello; alcuni li ha profondamente ammirati come Eduardo, Mina, Falqui; tutti gli altri li ha scoperti. O almeno così vuole la leggenda.
Diviso tra la passione per l’opera e la sua Donna Rosa, Giuseppe Raimondo Vittorio Baudo da Militello ha resistito al tempo, alle critiche, a qualche scivolone. Fisico imponente, refrattario alle delusioni e straordinaria volontà di arrivare, a ottantacinque anni fa progetti con rinnovato entusiasmo. Ripete che non scriverà mai le sue memorie, mentre sfoggia uno dei suoi sorrisi più eloquenti. Sta di fatto che per tutti è e rimane Super Pippo nazionalpopolare.
Torna su Rai 3 con un nuovo programma che racconta l’Italia degli ultimi settant’anni intersecando la cronaca del tempo con la storia del Festival.
«A Rai 3 mi sono trovato benissimo. Con il direttore Franco Di Mare e la sua vice Rosanna Pastore parliamo la stessa lingua, amano la televisione. Questo nuovo progetto, in vista di Sanremo, di spiegare l’Italia attraverso i festival, mi sembra bellissimo: racconterò la storia del costume.»
Sanremo story è un’appassionante nuova sfida per il mattatore del piccolo schermo.
«Ho sempre voglia di tornare in televisione. Quando passa la voglia sei finito: non hai più candore, hai perso la curiosità. Oggi sono entusiasta. Certo valuto con grande attenzione le proposte che mi fanno, ma stare nel circo mi piace.»
L’importante è innovare.
«Non vorrei sembrare immodesto ma ci sono quasi sempre riuscito: Tutti a casa, Partita doppia, Il castello, Luna park, Serata d’onore, un palmarès ricco, magari imperfetto. Ho sempre cambiato anche il Festival. Cambiavo stile, il modo di confezionare il prodotto… Una bella soddisfazione. Ne ho fatti tredici: il primo nel 1968, l’ultimo nel 2008.»
Devi cambiare senza tradire il pubblico.
«Il genere più difficile da innovare è il varietà. Sono bolle di sapone, non ha la consistenza della prosa o della fiction. Dare consistenza alle bolle è una sfida. La leggerezza intelligente è un’arte, devi cambiare senza tradire il pubblico. Mi stufavo di rifare lo stesso programma, ero il primo ad annoiarmi.»
Parola d’ordine: qualità.
«Sono legato alla Rai, ci ho passato la vita. Per me servizio pubblico deve voler dire qualità, così solo si può vincere. Deve mantenere lo stile.»
Rai 3, la rete generalista della cultura, ha dato spazio a un’iniziativa in cui per la prima volta i telespettatori hanno potuto vivere l’esperienza dell’opera come se fossero immersi nell’Arena di Verona.
«La gente si sta abituando a prodotti diversi, più raffinati, non è vero che il pubblico è scadente o vuole prodotti facili. Quando il prodotto è di classe, ti segue.»
Il linguaggio fa la differenza.
«Parlando di lirica bisogna trovare un linguaggio moderno, non aulico, ma scorrevole, perché la gente si appassioni. L’opera è nata come un genere popolare ed è tornata ad esserlo. Il pubblico curioso c’è, bisogna solo stanarlo.»
Un amante di Verdi che spasima per Puccini.
«“Vissi d’arte” è un momento eccellente di Tosca a Castel Sant’Angelo e come non citare la celeberrima “Nessun dorma”. Ma l’Aida è un capolavoro assoluto!»
Legato a Cavalleria rusticana per motivi personali e patriottici.
«Ho letto le novelle di Verga e di Cavalleria rusticana conosco bene la genesi e la storia. Sono molto legato a quell’opera anche perché papà me l’ha fatta sentire più volte e perché racconta i sentimenti che sono vicini al mio Paese.»
La musica ci insegna che le band si sciolgono, che niente dura per sempre.
«Non esiste il per sempre. Già nel mondo operistico si scioglievano i gruppi, cambiavano i librettisti. Anche l’eterno amore non esiste.»
Non esiste neanche la felicità, quella pura.
«Ed è giusto che sia così. Se no la vita sarebbe solo un paradiso, troppo bella, irreale.»
Raccontarsi significa che Il tempo passa, “et non s’arresta una hora”.
«Non mi racconto niente, non amo raccontarmi. Vorrei invece che tutto restasse fermo, immobile,
perché il tempo passa impietoso e ci dice che ogni giorno è un giorno in meno.»
Ha sei anni quando sale per la prima volta sul palco.
«Era il teatro Tempio di Militello (in Val di Catania, N.d.R.), vestivo i panni del figlio di santa Rita da Cascia.
Quell’esperienza si rivelò così profonda, che mi innamorai del palcoscenico e, idealmente, non ne sono più disceso.»
Giuseppe Raimondo Vittorio Baudo, un siciliano nella capitale.
«La Sicilia mi ha dato soprattutto l’ostinazione di arrivare. La prima volta che partii da Militello per andare a Roma fu il viaggio della speranza, anche dal punto di vista della distanza. All’ora era una specie di Odissea. E, quella lontananza, mi ha conferito una grande resistenza alle delusioni e una volontà straordinaria di farcela.»
Memorabile l’incontro con Aldo Fabrizi, icona della Roma che fu.
«Aldo Fabrizi non dava la sua amicizia a nessuno, invece a me la concesse a piene mani. La mattina metteva dieci pentole a bollire, dove avrebbe poi calato vari tipi di pasta, soprattutto all’amatriciana. E poi c’era la questione del telefono. Se qualcuno telefonava ad Aldo Fabrizi e lui in quel momento non gradiva la chiamata, ascoltava e non rispondeva. Quando io lo contattai per invitarlo in trasmissione: “Pronto, sono Pippo Baudo…”, sentii la sua voce. Significava che ero gradito: “E da me che voi?” con una marcata coloritura romanesca. Mi aveva dato il lasciapassare. Poi mi invitò a casa sua in piazza Bologna e dovetti assaggiare dieci tipi di pasta.»
Cresciuto sul valore fondante dell’onestà, una grande onestà intellettuale e di vita, è veterano di un ambiente dove bisogna diffidare, sempre e comunque. Anche dei consigli più spassionati.
«Consigli non bisogna accettarne perché non sai mai se il consigliere sia sincero o no. Bisogna sempre valutare la bontà del consiglio e poi applicarlo. Ma soprattutto sospettare, sospettare che qualche insidia si nasconda dietro l’angolo.»
Appartiene a una generazione di grandi presentatori, da Corrado a Mike Bongiorno, da Daniele Piombi a Enzo Tortora. È inventore di un certo tipo di televisione e scopritore di talenti.
«Sono fiero di avere scoperto La Smorfia, il trio formato da Massimo Troisi, Lello Arena ed Enzo Decaro. Con qualche riserva, anche di Beppe Grillo che poi ahimè ha cambiato strada deviando dalla comicità. Ma la gioia e la soddisfazione più grandi sono di aver scoperto Loretta Goggi, il nostro incontro è stato fulminante. Le feci subito fare La freccia d’oro e poi insieme Canzonissima. Lei era bravissima.»
Per tutti è e rimane Super Pippo nazionalpopolare.
«Mi piacerebbe che si dicesse: “Fu un buon professionista, fu onesto. Ebbe un discreto successo e se lo meritò tutto”.»
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