16 Novembre 2024

Zarabazà

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Decadenze di Steven Berkoff alla sala Futura del Teatro Stabile, per la stagione N° 0

Spettacolo allestito alla Sala Futura, neonata appendice del Taetro Stabile di Catania; vincitore del Premio “CATANIA PREMIA CATANIA”, regia di Giovanni Arezzo; con Alice Sgroi e Francesco Bernava.

Assistente alla regia Giada Caponetti; costumista Grazia Cassetti; disegno luci Simone Raimondo; musiche originali Orazio Magrì e Giuseppe Rizzo; grafica Maria Grazia Marano; organizzazione Filippo Trepepi; produzione MezzARIA; compagnia MezzARIA.

Foto di Antonio Parrinello. Titolo originale del libro: “Alla greca, decadenze”, pubblicato nel 1998 e tradotto da Clerici e Manfridi.

Il regista racconta:Decadenze” è scritto in versi separati l’uno dall’altro dallo slash, con la loro identità linguistica, ricercata e mai banale, finanche nelle volgarità e nelle bassezze, la complessità sintattica, la scansione metrica, riempiono ogni tipo di spazio, in maniera tale che ho voluto che fossero l’unico elemento su cui costruire questa storia. Versi così necessari, così incisivi che se pensati, se vissuti, se scanditi in azioni e reazioni dagli attori, diventano l’unica “scenografia” possibile.

Il nostro lavoro, dopo uno studio profondo del testo di Berkoff, è stato quello di creare un immaginario comune a noi tutti, che andasse dal luogo dove si svolge l’azione a tutto ciò che riguarda la biografia dei personaggi, andando a zoommare sulle relazioni che intercorrono tra loro, sulle aspettative, sulle volontà, sulle (non)prospettive, sugli incidenti. A questo abbiamo affiancato uno studio minuzioso sul suono del verso, sulle rime, sulle assonanze, sulle pause, cercando di restituire la musicalità che senz’altro ha il testo in lingua originale, e che può avere anche in italiano grazie alla splendida traduzione di Giuseppe Manfridi e Carlotta Clerici.”

Il lavoro di regia e di interpretazione di “Decadenze” è davvero magistrale: da parte di Giovanni Arezzo c’è stato un laborioso impegno di adattamento e di rendimento. Da parte di Francesco Bernava ed Alice Sgroi una faticosissima compenetrazione nei personaggi, anche tenuto conto che si sono dovuti sdoppiare.

Infatti, i personaggi della storia sono quattro, ma interpretati da due: Steve ed Helen, Sybil e Les. Cybil è sposata con Steve, ma lui ha una relazione con Helene e la moglie ha una relazione con Les. Sybil, ricca e capricciosa, egocentrica e possessiva, chiede al suo amante di pedinare il marito perché ne sospetta il tradimento; Steve se ne accorge, ma infine gliene importa ben poco: ha più paura per i soldi che per altro. Costruzione plausibile che potrebbe nella sua essenzialità costituire un’occorrenza già vista, se non fosse per l’humus sociale su cui la storia germoglia, segnando il passo alla incapacità di esprimersi attraverso il cuore e la mente. Steven Berkoff racconta senza filtri le scadenti corruzioni dell’animo della borghesia di trent’anni fa: getta in faccia allo spettatore il dietro le quinte ipocrita del “per sempre felici e contenti, in salute e malattia”, quando già è l’animo ad essere malato, incapace di aprirsi, di generare un rapporto basato sull’ascolto; siamo distanti dal parlare di “legittimazione dei rapporti sociali attraverso il matrimonio”. Estremamente irriverenti con se stessi, si percuote con lo stesso nervo anche l’altro, provando emozione solo per la durata del sesso che si confonde con la preparazione della biancheria intima, la scelta degli abiti, il tentativo di una vita parallela che stemperi la clandestinità, ma che possiede lo stesso paradigma: corna, alcol, droga e sesso. Da questo si coniuga ogni comportamento, sopravvalutando le attese e svuotando di contenuti la consumazione dell’atto che scava voragini intorno al mal di non saper essere e comunicare.

Giovanni Arezzo come regista ha certamente incontrato non poche difficoltà lungo il percorso di preparazione, soprattutto in ordine al risultato eccellente che è riuscito a portare a casa: rendere il progetto dell’autore e lasciare un’impronta personale spesso sono ipotesi che non combaciano, lasciando scontento qualcuno, ma davvero il regista c’è riuscito.

Giovanni Arezzo è attento, lungimirante e perspicace, bravissimo nello studio dello sdoppiamento del personaggio, come riuscì In “Chet“, – storia del trombettista Chet Baker – di cui fu interprete e regista (insieme a Laura Tornambene). Qualsiasi testo egli decida di mettere in scena, è consapevole dell’importanza della recitazione e la scelta è caduta su una coppia già piuttosto consolidata artisticamente: Alice Sgroi e Francesco Bernava hanno lavorato insieme in “Aquiloni”, “Shots”, “Cicoria”, affinando sintonia e comprensione tacita. Qui sono chiamati ad un esercizio di stile impegnativo, una compenetrazione nei quattro personaggi tanto diversi fra loro per carattere e gestualità, che devono necessariamente portare lo spettatore (così come nell’intento dello scrittore Berkoff) a vedere quattro attori anziché due.

Così, Alice Sgroi è Helen: amante devota ed innamorata a suo modo, trepidante ed infelice nell’attesa di un cambiamento; è Sybil, moglie arrogante e morbosamente curiosa, irriverente col marito e l’amante che tratta come oggetti intercambiabili in attesa di spunti più succulenti.

Francesco Bernava è Steve, il marito sfrontato e distaccato, forse più attratto fisicamente e voglioso che innamorato dell’amante; é Les, amante, balbuziente, impacciato, e come non riesce a tirare su la cerniera della patta dei suoi agitati pantaloni, è incapace di rendersi indispensabile agli occhi di Sybil.

Grande attenzione su luci, abiti e musica: le luci gestiscono gli spazi e le emozioni, pronunziano ombre e spigoli, mettono a nudo il tutto che non c’è. La musica tratteggia il cambio di personaggio. Gli abiti, eleganti, colori caldi, sono misteriosi e sfrontati, molto eleganti e di buona fattura, a significare la prevalenza della forma sull’assenza di contenuti.

Il testo ha connotazioni verbali assai forti: lo spettatore le assimila subendole (Teatro “in faccia”), trascinato dallo stesso vortice in cui sono intrappolate le vite dei protagonisti, ma prima della fine si manifesta una certa difficoltà a rimanere concentrati; per cui, forse potrebbe essere utile abbreviare la durata.

Infine, la mimica è l’ennesima esplosione di coriandoli che il regista tira fuori dal cilindro, sapendo di poter contare sul variegato repertorio mimico dei due attori. Un plauso ad entrambi per aver recitato in ogni senso con fluidità e sicurezza scenica.

Il sipario si chiude sulla ricerca di quell’elemento irraggiungibile che è il cuore.