Alessandro Ferrari: Le magliette di Ape Social Wear? Nascono da una parola: Restituzione
In molti conosceranno il logo Ape perché ne avranno visto da qualche parte il logo raffigurante una piccola ape su diverse felpe e magliette. Qualcuno avrà notato frasi contenenti messaggi positivi, scritte su capi di abbigliamento, tazze e accessori di vario tipo. Tutti quelli che conoscono Ape si saranno domandati chi ci sia dietro a questo straordinario quanto originale brand. Cosa vorrà mai dire “Ape”? Se lo saranno chiesto in tanti. Bene, ve lo presentiamo noi il suo inventore.
Si chiama Alessandro Ferrari ed è un grafico di Milano, che vent’anni fa in seguito a una conversione religiosa, decise di intraprendere un nuovo cammino. Prima da educatore, poi da imprenditore. C’è lui alla guida di Ape Social Wear, il brand che sponsorizza il bene fondandosi su una filosofia di vita che ruota intorno alla parola Restituzione.
Ce lo spiega meglio in questa intervista.
Anzitutto, perché Ape?
Niente di più semplice: durante un ritiro con l’oratorio dove facevo l’educatore, fui punto da tante api e così i bambini, ridendo, mi soprannominarono Ape.
Ape Social Wear nasce con la tua passione grafica.
Non solo quella. In realtà è nata e cresciuta insieme a una mia forte conversione.
Cosa accadde esattamente?
Andai a militare, credendo fortemente in quel che stavo facendo: non avrei mai fatto l’obiettore di coscienza a quell’epoca. Se fosse capitata una guerra, ci sarei andato senza problemi. Una volta cominciata l’avventura, capii però che quella cosa era per me una stupidata, dietro a cui stavo perdendo il mio tempo. Iniziava evidentemente a smuoversi qualcosa dentro di me, che volevo fare altre cose nella vita. Non pensavo certo alla vita dell’oratorio però…
Come diventasti allora un educatore?
Mi piaceva molto giocare a pallavolo, tanto che feci anche l’allenatore quasi a livello professionistico. Cercavo un posto dove poter giocare la domenica: entrai così in un oratorio salesiano di Sesto San Giovanni. Quando arrivò un prete a interrompere il gioco, proponendo una preghiera, scappai. La cosa si ripeté in un altro oratorio, fino a quando non incontrai un educatore che seppe coinvolgermi e farmi conoscere persone dallo spirito dinamico. Credo che lì fu proprio il Signore a portarmi su una certa strada, facendomela scoprire attraverso ciò che mi piaceva.
E lì iniziò la vera conversione.
Esatto. Passai da una situazione in cui non andavo mai a messa a una in cui frequentavo la chiesa tutti i giorni: si era costituito un bel gruppo di giovani con don Paolo Zago.
E la grafica?
Non la abbandonavo, ma nel frattempo venivo sempre più coinvolto dall’oratorio. Non facevo più gli straordinari per andare dai ragazzi della pallavolo. Mi piaceva quella vita così chiesi al sacerdote come avrei potuto intraprenderla a tempo pieno, senza però fare il prete: mi rispose che c’era una nuova professione in diocesi di Milano, il responsabile laico dell’oratorio, voluta fortemente dal Cardinal Martini. Andai quindi a informarmi, ma gli studi di grafica pubblicitaria non bastavano: avrei dovuto studiare Scienze Religiose.
Hai dovuto riprendere gli studi quindi?
Per me che già lavoravo e non amavo la scuola, non fu una grande notizia. Eppure desideravo con tutto me stesso quella vita da oratorio. Così, mentre lavoravo da grafico, facevo l’educatore in oratorio e il sabato frequentavo Scienze Religiose. La mia fede cresceva e diventavo un punto di riferimento per tanti ragazzi. Nell’ufficio, tutti parlavano dei benefit tecnologici che avrebbero avuto in azienda, ma a me quelle cose non interessavano proprio. Quando chiesi i permessi per studiare, pensavano che frequentassi ingegneria, per seguire qualcosa in linea con la professione che svolgevo.
Insomma iniziavi a sentirti un pesce fuor d’acqua, ma allo stesso tempo a scoprire cosa davvero volessi fare.
Sì, e ancora non era successo nulla, ma a ripensarci ora capisco che tutto doveva essere nel destino. Poco prima dell’ultimo esame mi licenziai e mi furono lasciate aperte le porte per ritornare qualora avessi voluto nel futuro. Era stata apprezzata la mia onestà morale e con la stessa venivo ripagato. Ogni tanto penso che fu proprio lì che ebbi la prima testimonianza del fatto che il bene che genera bene.
È la frase che poi hai riscoperto qualche anno dopo, facendola diventare lo slogan di Ape Social Wear?
Esatto. Andai al Sermig di Torino, dove rimasi affascinato dal concetto di “restituzione”, che da quel momento diventava una filosofia di vita. Fino a quel momento avevo creato delle magliette con il solo logo, con una linea che si chiamava Ape Italian Style per sottolineare la forza italiana nella moda che sognavo da sempre di cavalcare in una città come Milano. Dopo il Sermig capii di volere creare qualcosa che avesse un significato importante.
Cosa vuol dire per te restituzione?
È semplice: se crei qualcosa, la vita ti restituisce la stessa energia sotto un’altra chiave. La restituzione divenne così una filosofia di vita: fare le magliette doveva diventare una cosa intelligente, non fatta a caso.
Come si concilia questa filosofia con le logiche di un mercato sempre più agguerrito?
Ho fatto in modo che si conciliassero lasciando vivere appunto il bene. Inizialmente alcuni negozi del centro di Milano vendevano le mie magliette, ma poi capii di voler decidere io cosa fare: ritirai tutto e vendetti solo sul web. Se in futuro si fosse aperto un nuovo negozio, avrebbe dovuto essere solo Ape: è quello che è successo, diversamente da come immaginavo inizialmente. La vita è sempre una fonte inesauribile di sorprese. Positive naturalmente!
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