La riduzione del livello degli estrogeni associata alla menopausa è un fattore di rischio, ma uno studio condotto da un gruppo di ricercatrici del Cnr-Ibbc mette in luce che gli stessi ormoni, sin dalla prima fase dello sviluppo, potrebbero favorirne l’insorgenza. Gli estrogeni tendono infatti a sfavorire nelle donne l’utilizzo dell’ippocampo, la struttura cerebrale deputata alla formazione della memoria a lungo termine e all’orientamento spaziale, e proprio il suo minore uso potrebbe essere alla base di una sua maggiore vulnerabilità agli effetti dell’invecchiamento, tra i quali la riduzione di volume e la formazione di placche. La ricerca è stata pubblicata su Progress in Neurobiology
La malattia di Alzheimer, patologia neurodegenerativa che distrugge le cellule del cervello, è la più diffusa tra le forme di demenza e, a causa dell’invecchiamento della popolazione, il numero delle persone che ne soffrono tenderà ad aumentare. A essere più colpite da questa forma di demenza sono le donne e questo è dovuto all’ingresso in menopausa e al conseguente calo degli estrogeni, evento che determina la maggiore vulnerabilità femminile alla malattia, poiché questi ormoni svolgono una funzione protettiva contro la morte cellulare (apoptosi) e l’infiammazione che favorisce la formazione di placche di Beta amiloide, il cui accumulo è tra le cause della patologia. Proprio alla migliore comprensione delle ragioni che determinano la sua maggiore diffusione nel sesso femminile ha lavorato un team formato Giulia Torromino dell’Istituto di biochimica e biologia cellulare del Consiglio nazionale delle ricerche (Cnr-Ibbc) e coordinato da Elvira De Leonibus del Cnr-Ibbc e del Telethon Institute of Genetics and Medicine della Fondazione Telethon, con il contributo di Adriana Maggi dell’Università di Milano, all’interno di un progetto di ricerca finanziato dall’Associazione Americana per la malattia di Alzheimer (SAGA-17-418745) e pubblicato sulla rivista Progress in Neurobiology.
La ricerca ha portato all’elaborazione di una nuova ipotesi che parte dalla raccolta di evidenze scientifiche pre-cliniche (su modelli animali) e cliniche, che mostrano come i maschi e le femmine utilizzino strategie cognitive diverse. “Se si chiede a delle persone di imparare a orientarsi in una città nuova per spostarsi da casa al lavoro, la maggior parte dei maschi tende a costruire una visione dall’alto della città, organizzata in una mappa spaziale, le femmine tendono invece a utilizzare una strategia ‘route-finding’ (ovvero, destra-sinistra, dritto, etc.)”, spiega De Leonibus. “L’utilizzo di queste due diverse strategie (la mappa e il route-finding) si basa sull’attivazione di circuiti cerebrali diversi: la creazione di una mappa richiede necessariamente il coinvolgimento dell’ippocampo, struttura del cervello che svolge un ruolo importante nella formazione della memoria a lungo termine e nell’orientamento spaziale, e che costituisce la regione più colpita dalla malattia di Alzheimer; per il ‘route-finding’ si possono usare invece altre regioni cerebrali, ad esempio il circuito fronto-striatale”.
Ma perché le donne non utilizzano l’ippocampo per compiti cognitivi che negli uomini sono tipicamente dipendenti proprio da quest’area del cervello? “Dall’analisi della letteratura corrente abbiamo osservato che la presenza di testosterone (ormone maschile), rispetto agli estrogeni (ormoni femminili), durante lo sviluppo del cervello, favorisce un maggiore sviluppo e una crescita neuronale dell’ippocampo. Inoltre, le evidenze sperimentali dimostrano che le fluttuazioni cicliche dei livelli di estrogeni nelle femmine adulte conferiscono instabilità alla rete ippocampale da cui dipendono i meccanismi della memoria, mentre nei maschi c’è una relativa stabilità dei livelli di testosterone”, prosegue la ricercatrice del Cnr-Ibbc.
Nelle donne, la variazione dei livelli di estrogeni agisce quindi sulla memoria. “Queste mutazioni ormonali, indipendenti dal fatto che ci sia qualcosa da memorizzare, attiva la risposta dei neuroni ippocampali e ne rafforza le connessioni, fenomeno che abbiamo definito ‘engramma da estrogeno’. Ma dal momento che questo processo non è legato a una memoria da formare abbiamo ipotizzato che esso possa produrre una sorta di ‘rumore’ nella rete ippocampale, che disturba la stabilità degli altri ricordi”, precisa De Leonibus. “Dunque, essendo l’ippocampo più sensibile di altre regioni all’effetto degli estrogeni, viene utilizzato meno dalle donne e proprio questo suo scarso utilizzo potrebbe essere ciò che lo rende nel tempo più esposto agli effetti dell’invecchiamento, secondo un meccanismo ‘use or loose it’ (se non lo usi lo perdi). Non bisogna infatti credere che a invecchiare per lo scarso utilizzo siano solo i muscoli, lo stesso accade anche alla funzionalità cerebrale”.
Per aiutare l’ippocampo a “restare in forma” è fondamentale svolgere programmi di esercizio fisico e di allenamento cognitivo, strategie alle quali le donne rispondono meglio degli uomini. Proprio per questo De Leonibus e il suo team, per prevenire l’Alzheimer nelle donne, propongono il ricorso, oltre che alla terapia sostitutiva a base di estrogeni, a trattamenti comportamentali specificamente progettati. “Tra gli sport che potrebbero aiutare le donne ad allenare la rete ippocampale sin dalla giovane età, c’è l’orienteering”, conclude la ricercatrice. “Sport ancora poco noto in Italia, consiste nell’effettuare un percorso a tappe in un ambiente naturale, generalmente un bosco, con il solo aiuto di una bussola e di una cartina geografica dettagliata in scala. Come detto, l’ippocampo è una regione altamente specializzata per l’orientamento spaziale, per cui questo tipo di allenamento coinvolge questa struttura cerebrale più di altre. È importante comunque sottolineare che le differenze di genere nell’utilizzo delle diverse strategie cognitive possono essere modulate da fattori ambientali legati all’educazione e che non tutte le donne mostrano il profilo di ‘non ippocampo-user”’.
Questi risultati rafforzano ulteriormente l’importanza degli studi che mirano a identificare le differenze di genere e a verificare se queste si associano a un profilo a più alto rischio di sviluppare la malattia di Alzheimer.
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