Entusiasmante ed euforico, psichedelico, folle e colorato. Questi sono solo alcuni tra gli aggettivi che possono essere usati per definire l’opera celebre di Edward Albee, “Chi ha paura di Virginia Woolf?”. Testo diretto da Antonio Latella e rappresentato, dal 18 al 23 gennaio, presso il Teatro Carignano di Torino, dagli attori Paola Giannini (Honey), Ludovico Fededegni (Nick), Vinicio Marchioni (George) e Sonia Bergamasco (Martha).
L’impronta di un teatro più elevato si sente, eccome. In particolare, Marchioni e Bergamasco interpretano magnificamente il duello coniugale, quasi mortale, di George e Martha. È impossibile nascondere la propria emozione. Personalmente, è la prima volta che vedo un teatro così impavido, sicuro di sé, saziante. La crisi delle identità coinvolge lo stesso fruitore, che ad un certo punto evade dalla realtà.
Si pensi, dunque, alla storia di Virginia Woolf, sfondo ideologico della serata teatrale. La Woolf, nominata più volte, ha vissuto quel male di vivere di cui soffrivano la maggior parte degli intellettuali: si pensi a Leopardi o a Baudelaire. La depressione, l’ansia, lo stress post-traumatico e l’alcool come analgesico sono temi sicuramente attuali ma, evidentemente, universali. La Woolf, infatti, muore suicida. “La” Martha no. In lei, infatti, muore altro. Muore un ideale, un’apparenza, che rivela i suoi segreti. Non è casuale la scelta di inserire, come file rouge, nell’opera, il binomio apparenza-verità, illusione-smascheramento. Lo stesso Albee, d’altronde, è erede delle volontà pirandelliane, di cui è grandissimo fan. Pirandello è il padre-contemporaneo della maschera umana.
In un susseguirsi di mascheramenti, quindi, è impossibile sapere quando l’attore elimininerà ogni velo. Il motivo risiede nella convinzione che la persona non può levare alcuna maschera a suo piacimento, egli non sa farlo. Ecco la follia, un tratto per cui non si sa fare, perché non si sa distinguere più cosa è reale e cosa no. Si è pazzi!
Tuttavia, la pazzia non è mai ingiustificata. C’è sempre un motivo valido per cui si diventa folli. In questa rappresentazione, infatti, Martha dà ai due ospiti, Honey e Nick, la lieta notizia che l’indomani sarà il compleanno del figlio, avuto da George. Ma tale figlio esiste? O è semplicemente la bugia per la sua grande vergogna di non aver mai avuto, o potuto avere, un erede?
Le scene sono un susseguirsi di lotte dialettiche, di smascheramenti, offese e “frecciatine”, che hanno lo scopo di offendere l’altro dialogante. Non c’è una ragione per cui si litiga, lo si fa perché così è il modo di relazionarsi agli altri personaggi. Tutti appaiono come non-sono. Gentili e sarcastici, essi ridono alle battute degli altri per non offendere chi le fa, no perché sono realmente colpiti. Si è contenti di essere “scomodi” per l’altro. Si è felici se si rovina l’esistenza di qualcuno. L’obiettivo è la corrosione della stabilità mentale. “Mi fai imbestialire”, dice Martha a George, che risponde “bene…”! E vanno avanti così per 3 ore.
Non c’è rispetto per chi non ha rispetto, e viceversa (se capite cosa intendo).
Verso il finale, emerge una realtà surrealista: tra luci, colori e musica metal, emergono situazioni folli con le quali solo i quadri di Dalì potrebbero concorrere. La rappresentazione della follia raggiunge il suo apice ed esplode quando Martha urla “cose” sconnesse tra loro, durante un monologo profondo in cui emerge il suo sentirsi abbandonata dal mondo (dagli amici, dal marito e da suo padre).
George, pastore e lupo delle pecore, spinge Martha a confessare: il figlio non esiste, è un’invenzione che i due coniugi hanno generato per “vivere meglio”. Se verità e illusione non presentano differenze, allora non è meglio vivere di illusioni e di bugie? Sì, ma fino al limite della sopportazione. La fragilità di Martha si rivela, quindi, vera e profonda.
Il turbinio di emozioni provate in queste montagne russe della follia non sarebbe mai stato possibile se non grazie ad un cast di attori di primissimo livello. La Woolf, più volte citata nella battuta “Chi ha paura di Virginia Woolf?”, non è altro che un legame diretto con i problemi della scrittrice londinese e, sopratutto, con l’onomatopea “woolf” che richiama all’ululato del lupo o all’abbaio del cane. In quanto animale della notte (momento della follia per eccellenza), infatti, il lupo è un pericolo da cui bisogna tenersi distanti, altrimenti si rischia di essere “mangiati”…
di Emiliano Sgroi
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